Lo scandalo della carne di cavallo è anche una conseguenza delle nostre scelte alimentari

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Partita dalla catena Tesco, passata all’altrettanto famosa multinazionale Burger-King e poi all’azienda svedese IKEA, la saga della carne di cavallo rilevate dalle analisi nelle polpette e in altri piatti pronti in cui non doveva essere presente sta assumendo proporzioni agghiaccianti.

Lo scandalo ha già portato a perdite per oltre 1 miliardo di euro – una cifra da capogiro perché il numero delle nazioni coinvolte è molto alto. Il disastro è iniziato in Europa e poi si è esteso anche in Asia e in misura minore anche in America – continente in cui l’idea di mangiare carne di cavallo è aborrita nella maniera più assoluta, ma soltanto per motivi culturali perché obiettivamente la carne di cavallo è paragonabile a quella di manzo in termini di calorie e proteine e in proporzione contiene più grassi Omega 3.

La frode a oggi sembra essere solo di tipo commerciale, ovvero l’utilizzo di carne equina al posto di altri tipi di macinato. Il rischio è che la carne equina trovata nei prodotti possa essere quella di cavalli da corsa a fine carriera; animali che, una volta usciti dal circuito sportivo, devono per legge essere mantenuti sino a fine vita con costi elevati. La carne dei cavalli allevati per la macellazione costerebbe infatti più di quella di manzo, vitello o maiale – e non esisterebbe alcuna convenienza nel suo impiego. Invece la spesa per il mantenimento dei cavalli da corsa che citavamo sopra (spesso curati con steroidi e altri medicinali per aumentarne le prestazioni nelle competizione) potrebbe costituire una buona motivazione per favorire il mercato clandestino della macellazione illegale – reso più semplice dall’assenza di una normativa europea in materia di tracciabilità di carne equina.

In attesa di norme più severe e controlli più capillari, i consumatori sono giustamente allarmati perché vedono violato il loro diritto ad acquistare cibi con etichette che non mentano. Ma lo scandalo almeno dovrebbe contribuire a renderci tutti più attenti alla scelta dei prodotti alimentari e ad aumentare la schiera di consumatori che preferiscono acquistare “a chilometro zero” ovvero secondo una modalità in cui la filiera corta offre maggiori garanzie su quanto andiamo a mettere nel piatto.

Questo clamoroso fiasco della grande distribuzione dovrebbe anche insegnarci l’assurdità dell’abitudine di acquistare troppi cibi pronti o precotti invece di partire dagli ingredienti base. Preparare un hamburger o una polpetta con carne trita non è un’impresa difficile né neppure per un ragazzino!


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