Perché così tante alluvioni? Che cosa si può fare per difendersi?

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Continua a piovere. E si guarda con apprensione ai corsi d’acqua che si gonfiano. Abbiamo ancora negli occhi i drammi degli anni scorsi, le alluvioni derivate dalle quantità imponenti di pioggia cadute in poche ore e i relativi disastri causati da acqua, fango e frane.

Gli eventi alluvionali e le frane con tragiche conseguenze hanno sicuramente caratterizzato gli ultimi anni nella nostra penisola. La domanda è: sta accadendo qualcosa di straordinario, come conseguenza dei mutamenti climatici? Oppure è normale che le piogge siano così abbondanti e il disastro naturale è dovuto a cause che dipendono da fattori diversi rispetto alle precipitazioni?

Dinamica territoriale e urbanizzazione

Spesso gli accadimenti rientrano nella dinamica normale del territorio, nelle ‘normali’ piene dei fiumi. Il clima per ora entra solo in maniera molto marginale nella questione, anche se in futuro si prevede che la probabilità di eventi simili sarà sempre più alta. E’ difficile da accettare il fatto che fiumi e frane abbiano una loro dinamica, insita nel territorio e precedente a noi.

I nostri tempi sono caratterizzati da una forte mobilità, per cui la gente oggi va ad abitare in luoghi di cui non sa nulla, acquista villini con vista mare o vista montagna in un luogo che di fatto non conosce. Un tempo c’era un passaggio generazionale di conoscenza ed esperienza del territorio che impedivano certe ingenuità. E quando si acquista una casa in un’area chiamata “Stagni di xx”, “via della Melma”, “via delle Basse”, “Alluvioni Cambiò”, qualche riflessione maggiore sarebbe doverosa. Per lo meno bisognerebbe preoccuparsi di verificare che tutte le opere di prevenzione in quella zona siano state attuate.

Vulnerabilità e costi umani ed economici

zone alluvionali

Non possiamo fidarci molto della memoria per valutare la quantità delle precipitazioni: per esempio, nel 1966 la quantità di pioggia caduta su Firenze e che causò l’alluvione fu incredibile. Ma da allora ad oggi, è cambiato in maniera considerevole il territorio: negli anni ’60 l’urbanizzazione interessava poco più dell’1% del territorio, mentre oggi siamo prossimi al 10%. Abbiamo concentrato una grande quantità di edifici di ogni dimensione e infrastrutture (strade, ferrovie) che aumentano la vulnerabilità. L’espansione urbanistica enorme degli ultimi vent’anni ha portato al cosiddetto sprawl urbano, cioè a una dispersione di una miriade di abitazioni, mischiate ai capannoni, strade, parcheggi, supermercati, centri commerciali, rotonde. Questa nuova conformazione del territorio accresce enormemente la vulnerabilità, nel senso che, a parità di acqua che fuoriesce dai fiumi, ci sono più cose da distruggere. E accresce anche il rischio di alluvione perché queste zone impermeabilizzate dal cemento, fanno da canale per l’acqua esondata e ne aumentano la velocità di deflusso, impedendo la fisiologica infiltrazione nel suolo.

Sta di fatto che oggi quasi la metà degli italiani oggi vive in zone a rischio medio-alto. Così, oltre al dramma umano, ci sono i costi altissimi della ricostruzione, il blocco delle attività lavorative per mesi, se non per sempre.

Azioni pratiche e cambiamento di approccio

Ci sono cose che si possono fare praticamente? Per l’immediato, paratie agli infissi ed evitare di lasciare macchinari o materiale prezioso al piano terra delle abitazioni. Ma ovviamente bisogna fare di più. Finora l’atteggiamento è stato quello di ricorrere a provvedimenti tampone quando il danno è già stato fatto. Bisognerebbe cambiare completamente registro per quanto riguarda la manutenzione del territorio, ovvero la messa in sicurezza del medesimo. Si tratta di un’opera enorme e capillare al tempo stesso, dove i fondi dovrebbero essere non sparsi a pioggia, ma concentrati dapprima nelle aree a rischio prioritario. Dal punto di vista della pianificazione si conosce già tutto, ma si tratta di far collaborare istituzioni e autorità di bacino a livello di prevenzione.

Inoltre, bisognerebbe avere il coraggio di smettere di costruire nei luoghi dove è il fiume a ‘comandare’. Esistono delle carte che descrivono le fasce a rischio dei fiumi, ma nessuno è disposto ad accettare che la linea di demarcazione passi proprio sul proprio terreno, perché quella semplice segnalazione gli fa perdere di valore.

Un altro livello su cui si può lavorare è quello della formazione culturale del popolo: rimuovere il problema dalla mente non serve a nulla. Bisogna riuscire a parlare del rischio senza per questo essere considerati degli iettatori, ma analizzare i dati, lavorare sulla cartografia e capire che, quando il rischio esiste, conviene – come già fanno molti paesi – delocalizzare con esproprio d’ufficio.

A questo fine, vale la pena di vedere un film-documentario intitolato Il suolo minacciato, che mette in evidenza come l’espansione edilizia e delle infrastrutture stia rubando troppi ettari di suolo un tempo dedicati all’agricoltura. Il film analizza cause e costi del problema e propone modelli alternativi di sviluppo urbano, facendo tesoro dell’esperienza di altri paesi europei e di alcuni comuni italiani virtuosi.


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